Vestirsi per la libertà, ma anche per sopravvivere
Non farne un dramma (ma oggi ne parliamo)
Cosa fai solitamente prima di uscire di casa? Ti prepari, stiri la maglietta che vuoi mettere all’ultimo secondo, cerchi le stronze delle chiavi che si nascondono sempre, controlli di aver spento il gas… Ecco, una donna fa tutte queste cose più una: check outfit. No, non come lo immaginate voi.
🎭Dietro le quinte del patriarcato
Giovedì sono andata da sola al concerto di Cesare Cremonini a Bari e, prima ancora di controllare il biglietto, riempire la borraccia o mettere in borsa uno snack, mi sono ritrovata davanti all’armadio a fare quello che faccio ogni volta che esco da sola: la valutazione del rischio.
Non “cosa mi sta bene?” o “cosa mi fa sentire me stessa?”.
Ma: “questo vestito attirerà attenzioni non richieste?”, “questi pantaloncini saranno troppo corti per confondermi nella folla?”.
Una lista mentale fatta di filtri, rinunce, micro-negoziazioni.
Mi sono vestita per mimetizzarmi, non per esprimermi, per muovermi nel mondo cercando di occupare meno spazio possibile. Come se il mio corpo, in certi contesti, fosse una miccia da disinnescare in anticipo.
Succede spesso.
Succede quando vado a ballare, quando parcheggio lontano e torno all’auto da sola, quando partecipo a un festival e decido se indossare una canotta o una t-shirt larga.
Succede anche quando so benissimo che la violenza non guarda i vestiti, che non dipende da una scollatura o da un paio di shorts – l’ho imparato sulla mia pelle, nei giorni in cui ero coperta fino al mento eppure non abbastanza invisibile.
Eppure continuo a programmare il mio corpo come se fosse un oggetto da proteggere, da spegnere, da nascondere. Perché vivere da donna nello spazio pubblico significa, da sempre, sapere che il proprio corpo non ti appartiene mai del tutto.
Paradossalmente, mi sono sentita più al sicuro nei club, nelle notti techno, in certi contesti apparentemente più estremi ma dove il consenso è una grammatica condivisa.
Per assurdo, mi sono sentita più protetta tra corpi sudati che danzano a occhi chiusi che in una piazza di provincia durante un mercatino.
Forse perché lì, almeno, il corpo non è spettacolo, ma linguaggio. Non è merce, è vibrazione. E nessuno ti guarda come se fossi lì per lui.
A volte mi chiedo cosa significhi davvero “sentirsi libera”.
Forse è proprio questo: potersi vestire senza strategia, senza dover calcolare il grado di esposizione o il tempo di rientro.
Poter camminare nel mondo con lo stesso diritto all’incoscienza che hanno tanti uomini: senza il peso del sospetto, della paura, dell’anticipazione del pericolo.
Non c’è niente di normale nell’addestramento alla sopravvivenza che ci impongono fin da piccole.
Eppure ci muoviamo ogni giorno dentro queste coreografie del silenzio, dove ogni passo è anche una rinuncia.
E in fondo a tutto, resta questa domanda:
come sarebbe la libertà se non dovessimo difenderla prima ancora di viverla?
📜Voci versate
Questa è la sezione in cui vi lascio una poesia, un passo di un libro o la battuta di un film.
✍🏼Fuori dal copione
Per Fuori dal copione oggi parliamo di techno e Palestina con la “regina della techno palestinese”, Sama’ Abdulhadi. Nata da genitori in esilio, scopre la musica elettronica a Beirut e nel 2018 fa esplodere il web con un set Boiler Room a Ramallah. I suoi beat martellanti reclamano spazio e libertà in un territorio frammentato da checkpoint e divieti. Nel 2020 viene arrestata per un rave a Nabi Musa: la pista da ballo diventa scena del crimine politico. Oggi, tra tour mondiali (compreso il recente fabric presents) e il collettivo Union, Sama’ trasforma ogni suono in una dichiarazione: il corpo che balla è un diritto, il dancefloor una barricata di luce dove il consenso è la lingua madre.
📌Raccomandazioni impegnative
🎧 Corpi – Storielibere.fm, ideato da Carolina Capria
Una serie potente in cui ogni episodio racconta il rapporto con il proprio corpo: corpi che cambiano, che resistono, che chiedono spazio, che diventano campo di battaglia.
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